
Racconti di viaggio
di Giovanna e Silvietto
Avventura Ecuadoriana
E’ il racconto di un viaggio che mi ha portato a salire sulle vette più alte dell’Ecuador e che mi ha permesso di conoscere molti aspetti della vita e della cultura del paese Andino.
​
20/11/ 2007 - È pomeriggio quando da Angiari, un piccolo paese della bassa pianura padana, parto per l’aeroporto di Milano. Sulla mia macchina carico il pesante borsone contenente il materiale tecnico e relativo vestiario in funzione delle scalate, e uno zaino di circa dieci Kg. dove vi è un cambio, la tuta in piumino per le alte quote, dei medicinali e altre cose di prima necessità. Io sono vestito come quando d’inverno vado a camminare sulle montagne trentine; questa precauzione la si deve sempre tenere per non pregiudicare la finalità del viaggio. Bisogna tenere in considerazione che, se il tuo bagaglio o arriva in ritardo o viene smarrito, non puoi aggregarti agli altri partecipanti, e devi abbandonare la spedizione. È un rischio che mi è capitato quando sono stato un mese in Perù e sulle Ande della Cordigliera Blanca in Bolivia. In quel caso il programma consisteva nel fare un trekking impegnativo con superamento di passi andini sopra i quattromila metri, con l’arrivo sulla cima di una vetta del gruppo del Condoriri metri 5.300. Alla fine del trekking, io e un componente del gruppo avevamo in programma la scalata del Monte Illimani di 6.439 metri che si trova vicino alla Capitale La Paz. Arrivo al dunque: quel bagaglio partito dall’aeroporto di Milano era un saccone da marinaio contenente tutto il materiale tecnico, compresi scarponi e il vestiario pesante. Bagaglio regolarmente registrato al check-in e assemblato in un unico contenitore assieme agli altri bagagli del gruppo. Il programma era, partenza da Milano, uno scalo intermedio e sosta di mezza giornata a San Paolo del Brasile, per poi ripartire per Lima capitale del Peru.
Tutto bene fino a quel punto, e dopo aver passata una bella giornata a San Paolo, ripartiamo e finalmente arriviamo all’aeroporto di Lima, tranquilli e sorridenti aspettiamo di prelevare il nostro bagaglio dal nastro trasportatore. Come sempre grande confusione, quel bagaglio è mio, quello è il tuo, ma il mio saccone non arriva. Tutto il bagaglio dei componenti della comitiva viene controllato, ma manca il mio, il nastro trasportatore gira a vuoto e sopra non vi è più niente. Dopo un momento di panico e sconforto, con la nostra documentazione, ci rivolgiamo alle autorità aeroportuali competenti che riscontrano che il bagaglio era rimasto a San Paolo e ci rassicurano che nel giro al massimo di tre giorni ne sarei rientrato in possesso. In quel caso la fortuna mi ha voluto bene. Nel programma vi era una sosta di un giorno nella capitale Lima, e poi due giorni per visitare la bellissima Cuzco, capitale dell’impero Inca, salire sul Machu Picchu e vedere altri antichi siti Inca tra cui la fortezza di Sacsayhuaman. Sono stati tre giorni di ansia e di paura, fino all’ultima sera, quando al mio rientro in albergo constato che il mio saccone non è ancora arrivato come promesso dalla linea aerea. Sono conscio della situazione. Se non arriva il saccone tutto il mio programma iniziale salta, so bene che il mattino successivo si parte per la Bolivia. Le buone parole da parte del gruppo possono fare poca cosa. Lo scoramento mi squassa internamente, vedo svanire un progetto a lungo sognato. Il gruppo si prodiga dicendo che ogni uno di loro mi fornirà del materiale in modo che io possa restare nel gruppo, ma non potrò fare tutto ciò che mi ero prefissato. Il sole a Cuzco è tramontato da parecchio, gli altri sono andati a letto, sono rimasto solo con i miei pensieri seduto su una vecchia poltrona di cuoio mal ridotta quando, dalla porta centrale, entra una persona trascinando il mio pesantissimo saccone. Lo stupore è tale che ho solamente il tempo di ringraziare firmare le carte che attestano il ricevimento del collo. La persona che ha portato il saccone sparisce velocemente dalla mia vista. È notte tarda, la tensione accumulata in quei giorni è svanita in un attimo, mi viene ancora da sorridere se penso che dalla gioia mi è passato il sonno. Ricordando quanto è accaduto in quella spedizione, il mio atteggiamento riguardante i nuovi viaggi, è diventato ancora più prudente. Memore del passato, a scanso di equivoci, decido di partire per tempo il pomeriggio del giorno prima. Parto con la mia macchina per l’aeroporto di Milano, e trascorro alcune ore della notte direttamente nella hall dell’aeroporto in attesa del check-in. Penso di passare da solo la notte, invece alla spicciolata chi in gruppo, chi da solo entra con il suo bagaglio e lo zaino a spalle, addirittura uno di loro indossa scarponi e tuta da alta quota, non è difficile capire che facciamo parte della stessa avventura. Alla fine dopo le presentazioni, il gruppo è composto da una giovane alpinista Svizzera, due coppie di Vicenza, un trentino, poi bergamaschi e milanesi. Naturalmente l’amico e capo spedizione proveniente dalla Valtellina, in tutto tredici persone.
21/11/2007 - Dalla Capitale dell’Ecuador Quito parte la nostra avventura. Quito è la capitale dell’Ecuador, e si trova a una altitudine di 1.850 metri sul livello del mare. È una città con una popolazione di circa 1.700,000 mila abitanti. La sua data di fondazione è incerta, di origine preincaica, secondo studi e ricerche, i primi insediamenti risalgono a millenni prima di Cristo. L’impero inca ne fece una importante città. Con l’arrivo degli invasori spagnoli gli inca, per non lasciare la città nelle loro mani, la bruciarono completamente lasciando solo un mucchio di cenere. I conquistatori spagnoli rifondarono la città il 24 agosto 1.534, dandole il nome di “San Francisco de Quito “. Visitiamo la città con le sue belle e pulite vie, le bellissime chiese barocche, la sua cattedrale e il centro storico. Saliamo sul monte Panecillo una collinetta di origine vulcanica di circa 200 metri, dove si trova una grande statua della Virgen del Panecillo, da dove si può godere la più bella vista di tutta la città. Vicino a Quito si trova il monumento “ Mitad del Mundo “ posto sulla linea dell’equatore, una località e un museo che attrae molti turisti. È stato divertente farsi fotografare con i piedi appoggiati a cavallo di una linea che separa due emisferi. La giornata si conclude occupandoci dei problemi organizzativi che riguardano i prossimi giorni della nostra spedizione
22/11/2007 – È una bella mattina, la colazione è abbondante, soprattutto grande scorpacciata di frutta fresca esotica locale. La musica ecuadoregna si spande nella sala del piccolo Hotel. Prendiamo gli zaini e i bastoncini da trekking, qualcuno mima dei passi di danza, e tra l’ilarità del gruppo, saliamo sui pulmini che ci porteranno all’inizio della salita per la vetta al vulcano Pichincha 4.627 metri. Questa giornata fondamentalmente è un test per verificare il grado di forma dei componenti del gruppo e testare la forma fisica e l’acclimatamento alla quota, tenendo conto che arriviamo a 4.627 metri e nei prossimi giorni arriveremo a quote superiori ai 6.000 metri. Inizialmente sembra una scampagnata. Il sentiero si snoda attraverso ciuffi di erba spinosa e caratteristici fiori esotici colorati, poi il sentiero si fa irto e scivoloso, a causa anche del tempo che è cambiato rapidamente, la nebbia ha avvolto la cima, una pioggerellina fredda ghiacciata comincia a pungere il viso e le mani, allunghiamo il passo e rapidamente raggiungiamo la vetta del vulcano Pichincha 4.627 metri. Momenti di gioia, abbracci e foto ricordo, e poi velocemente giù, dobbiamo recuperare le forze, siamo appena all’inizio dell’avventura.
23/11/2007 - I sacconi e gli zaini sono ben allineati fuori dell’Hotel. Questa mattina con dei pulmini si parte per raggiungere le pendici del monte Iliniza. Lasciamo la città di Quito e inizialmente percorriamo la strada panamericana sur. Dopo qualche ora di viaggio, usciamo e prendiamo una strada sterrata che ci porterà fino a un’Hacienda posta a metri 3900 sulle pendici del monte Iliniza. Il progetto iniziale è quello di fare una piccola sosta alla locanda, mettere giù il materiale che non serve per l’ascensione alla montagna, e poi proseguire per raggiungere il rifugio Iliniza a 4.700 metri. Fare sosta per la notte, e poi proseguire verso la cima il mattino successivo.
Parlando con il proprietario della locanda, il rifugio Illiniza risulta inagibile, ma dopo una serie di telefonate si trova la soluzione. Facciamo sosta nell’Hostal dell’Hacienda dove il proprietario dopo avere preparato degli alloggi e aver provveduto ad accendere un grande fuoco per riscaldare l’ambiente, ci fa trovare dei grossi pezzi di capra caldi e arrostiti al punto giusto, cosa a dire il vero, apprezzata da tutti. Poi controlliamo tutto il materiale tecnico da portare nello zaino per l’ascesa alla montagna: ramponi, piccozza, corde, moschettoni, un termos per il tè ecc. e quello da indossare, scarponi da quota e relativo abbigliamento. Inoltre, visto che si deve procedere in cordata, il percorso e un misto di neve ghiaccio e roccia. Ripassiamo le norme di comportamento di come procedere e agire in sicurezza anche nei casi di estrema difficoltà. Abbiamo anche la possibilità di riposare due tre ore prima di iniziare a camminare.
24/11/2007 - È appena passata mezzanotte, partiamo. Dopo un breve tratto di strada piena di buche che fanno sobbalzare i fuori strada, tutto a danno delle nostre schiene, non vediamo l’ora di scendere. Sarà una lunga camminata prima di arrivare alla cima, dobbiamo raggiungere il rifugio Illiniza a 4700 metri per poi in cordata salire la vetta dell’Iliniza Sur a metri 5.116. Inizialmente i pendii non sono coperti di neve, camminiamo su dissestati sentieri in mezzo a bassi arbusti. Un vento gelido scende dalla montagna, le luci dei frontalini illuminano sassi incrostati di ghiaccio. Ogni tanto si sente un crac, sono gli scarponi che rompono il ghiaccio che si è formato sulle pozzanghere. Alle prime luci dell’alba uno spettacolo si apre ai nostri occhi, in mezzo ad un oceano di nuvole si erge un gigantesco cono bianco, il vulcano Cotopaxi 5.897 metri. Più in lontananza si vedono il vulcano Cayambe 5.790 e il vulcano Artisana.
Facciamo una piccola sosta, una ragazza del gruppo non si sente bene, ha mal di testa, non regge il passo del gruppo, il suo compagno le sta vicino, la aiuta. Bisogna arrivare al rifugio Iliniza dove potranno riposarsi aspettando il nostro ritorno dalla vetta. I ramponi adesso aggrediscono le rampe innevate dell’Iliniza Nord, la salita alla vetta avviene tra ripidi pendii innevati tratti ghiacciati e rocce. Procediamo in sicurezza posando tratti di corda nei Punti più difficili, tra repentine folate di vento, passo dopo passo, finalmente arriviamo in vetta all’Iliniza Nord 5.116 metri. Sorrisi e strette di mano coronano il raggiungimento della vetta, ma non dobbiamo soffermarci a lungo, ci stiamo raffreddando e poi la discesa si presenta in certi tratti pericolosa. È buona regola perdere quota in sicurezza. Sappiamo per esperienza che molti incidenti in montagna avvengono non per raggiungere la vetta, ma nel discendere dalla vetta, perché la stanchezza abbinata all’ euforia può farti perdere la lucidità dei movimenti. Poi in certi tratti la discesa può risultare più pericolosa della salita. Adesso il rumore non è più dei ramponi che mordono il ghiaccio, ma il rumore dei ramponi attaccati agli zaini che come campanelli accompagnano i nostri passi. Il rumore dell’acqua attira la nostra attenzione, le nostre gole sono arse dalla sete, dalle rocce sgorga un getto di acqua che forma un rigagnolo che scende a valle. Immergere le mani nel getto d’acqua e bere grandi sorsate è gioia pura, oltre a dissetarci l’acqua ci rigenera e con maggiore vigoria scendiamo a valle. Alla sera, nel cortile dell’Hostal dell’Hacienda, una grande graticola piena di grossi pezzi di carne è posta su un grande braciere. Grossi pezzi di legno emettono stille che salgono in cielo a indicarci la sempre meravigliosa via lattea. Sono ore che non si mangia qualcosa di sostanzioso. Nel gruppo vi è una grande fame, non vediamo l’ora di sederci, ai lati di un grande tavolato imbandito di pane, verdure e frutta. È stato il giusto modo per chiudere in bellezza la giornata al suono della musica andina, con un buon bicchiere di birra ecuadoregna.
25/11/2007 – Abbiamo caricato tutto il materiale sui pulmini e siamo pronti per andare verso il parco nazionale Cotopaxi. L’umore del gruppo non è sereno come la sera precedente, la coppia che aveva dimostrato problemi nella salita all’Iliniza ha deciso di lasciare la spedizione e tornare a Quito, ci saremo ritrovati solamente all’aeroporto al momento di rientrare in Italia. Le valli andine sono verdi, prevalentemente coltivate a mais, patate e altre verdure, inoltre vi sono aree adibite al pascolo di pecore e cavalli. Le strade sono percorribili, si procede senza grandi scossoni, si incontrano poche macchine, dei camion per trasporto merce caricati all’inverosimile. Gli autisti che percorrono queste strade devono stare attenti alle molte persone che cavalcando cavalli o muli si spostano da un paese all’altro. Dopo aver mangiato un piatto tipico equadoregno fatto di carne e farina di mais in una hosteria di un piccolo paese, arriviamo al campo base del Cotopaxi 3800 metri di altitudine. Il programma è di piantare le tende e fare un piccolo campo base, ma il terreno a disposizione è bagnato e fangoso, poco si presta, e si decide di desistere dal progetto iniziale. Li vicino vi è un rifugio abbastanza grande, dopo aver parlato con il titolare del rifugio, l’unica soluzione prospettata è quella arrangiarci a dormire nella soffitta del rifugio. Una scelta apparentemente buona, ma la mancanza di luce, il soffitto basso e spiovente limita il movimento e inizialmente alcuni di noi, il sottoscritto compreso sbatte involontariamente la testa nelle grosse travi. Tra grandi risate troviamo un posto dove porre il sacco a pelo e lo zaino. Siamo all’asciutto, abbiamo evitato di impantanare le nostre tende e subire il freddo e l’umidità che generalmente si crea dentro a una tenda, che bagna i sacchi a pelo e i vestiti. Adesso di fronte a noi si staglia il Cotopaxi che in lingua Quechua significa “Collo della Luna “un vulcano a forma di cono con un’altitudine di 5.872 metri, risulta essere il terzo vulcano più alto al mondo. Ieri salendo verso Iliniza Nord, avevo visto il Cotopaxi emergere maestoso, con la sua bella parte sommitale, in un mare di nuvole, ora è di fronte a me in tutta la sua bellezza. Sono seduto in veranda, il buio della sera allunga i suoi tentacoli, mentre la luna sta facendo capolino. Il silenzio è lievemente rotto dal brusio di una leggera brezza, dei lama stanno girovagando nel parco. Una fotografia di bellezza e pace, vorrei fermare il tempo per godere di questi momenti magici; non è possibile, però so che resteranno impressi nella mia mente per sempre.
26/11/2007 – Questa sera partiremo per la vetta, e abbiamo una giornata a disposizione. Si decide di fare una camminata nel parco alla ricerca di gruppi di cavalli selvatici e di lama e, se la fortuna ci assiste, avvistare anche dei condor. Più che una camminata è stata una passeggiata su dei falsipiani. In lontananza dei cavalli, molto restii a farsi vedere da vicino e dei lama che pigramente brucano dei ciuffi di erbe spinose, nessun condor in vista. Dopo aver pranzato, il programma del pomeriggio consiste nel fare una piccola dormitina e, in serata, partire con i mezzi che ci porteranno a circa 4.500 metri di quota. Da qui ci porteremo inizialmente al rifugio Josè Rivas a 4.864 metri per poi arrivare in cima al Cotopaxi a 5.897 metri. È quasi buio quando iniziamo a salire su un ripido pendio di circa 300 metri di dislivello composto da materiale lavico di sabbia e cenere. Non esiste un sentiero battuto, ad ogni passo il terreno tende a cedere, un piccolo rivolo di sudore cala dalla fronte, ci si aiuta con i bastoncini da trekking, testa bassa e si guadagna quota. Improvvisamente si alza un vento gelido che alza nuvole di cenere lavica, un imprevisto che non ho tenuto in considerazione. Ho gli occhiali da montagna, però non impediscono completamente che i cristalli di pomice arrivino ai miei occhi. Cerco di proteggermi come posso però gli occhi iniziano leggermente a irritarsi. Il vento non tende a placarsi, arrivati al rifugio Josè Rivas 4,864 metri decidiamo di non fare soste. Posti rapidamente i ramponi sugli scarponi e formate le due cordate, iniziamo la salita verso la cima del vulcano, posta a quota 5.897metri, per raggiungere la vetta dovremo fare circa 1.000 metri di dislivello. La luna è alta nel cielo, non si vede una nuvola, un gelido vento sferza le nostre giacche e i nostri pantaloni. È una pendenza dura e costante, non lascia tregua. La neve è ghiacciata e le punte dei ramponi garantiscono stabilità. Alcuni passaggi da fare in sicurezza rallentano la marcia. Sono tre ore che camminiamo ci fermiamo per bere del tè caldo, ho freddo al viso, ma il resto del corpo è caldo, merito della tuta, scarponi e guanti da alta quota. Siamo parecchi gradi sotto zero. Cristalli di ghiaccio, portati dal vento, fanno sentire il loro ossessivo rumore sul nostro abbigliamento. Tutti cercano di muoversi per tenersi caldi. I componenti dell’altra cordata dicono di avere freddo ai piedi e alle mani, uno lamenta un tremore nel corpo, poi le cordate ripartono, l’accordo è che ognuna procederà con il suo passo per poi ritrovarsi all’alba in vetta al vulcano.
27/11/2007 - Sono stanco e le prime luci dell’alba fanno capolino, la corda improvvisamente si tende, ora di fronte a me un muro di neve mista ghiaccio, l’ultimo strappo per arrivare alla vetta. Pianto i ramponi e con l’aiuto della piccozza supero gli ultimi metri, finalmente in vetta al Cotopaxi 5.872 metri. La fredda notte ha decimato i gruppi. Solo in cinque abbiamo raggiunto la cima, sono sul bordo della caldera e il mio sguardo spazia nelle vallate sottostanti. Tiro fuori la cinepresa per fare delle riprese, non funziona mi arrabbio con me stesso, per averla messa nel posto sbagliato dello zaino. Per fortuna una componente il gruppo, una fortissima scalatrice Svizzera, che l’anno precedente aveva scalato l’Aconcagua, una montagna Argentina sulla cordigliera delle Ande di 6.961 metri, mi scatta delle foto con la sua macchina fotografica, con la promessa che me le invierà una volta arrivata a casa. Stiamo scendendo, il sudore della fronte cola sui miei occhi, che bruciano tremendamente, adesso sono diventate due fessure, che tendono progressivamente a chiudersi. La neve, con il caldo del sole, sta diventando saponosa, e tende a fare zoccolo sotto i ramponi, aumentando il rischio di scivolare a valle. Di notte quando si sale non si percepisce la reale pendenza del vulcano, sono quasi cieco quando arriviamo finalmente al rifugio da dove inizialmente siamo partiti. È la prima volta che mi trovo in questa estrema situazione, dal saccone tiro fuori la mia piccola farmacia personale, farmaci testati nell’arco degli anni. Devo fare le cose per bene, l’avventura è ancora lunga e devo guarire in fretta. Dopo essermi lavato bene gli occhi con l’acqua ghiacciata di una sorgente, messo sugli occhi delle gocce monouso, e uno strato di crema per sfiammare, fascio il tutto con una benda, mi infilo nel sacco a pelo e al buio, con gli occhi ben chiusi, rimango rimasto fermo fino al risveglio del mattino successivo.
28/11/2007 - La nottata è stata provvidenziale, la vista è ritornata quasi normale. Ho gli occhi ancora leggermente arrossati, continuo con i medicinali e spero che nel giro di un paio di giorni tutto ritornerà a posto e sarò pronto per la prossima scalata al monte Chimborazo 6.310 metri. Chissà perché dicono che qualcuno ha tanta fame “ha una fame da lupo “, pensandoci bene erano ventiquattrore che non mangiavo e una sana e abbondante colazione riesce a tirare su sia il mio umore che quello di tutto il gruppo. Oggi giornata di trasferimento, usciamo dal parco Cotopaxi e nel nostro percorso, attraverso paesaggi andini, passiamo dalla città di Latacunga e di Anbata per poi finalmente arrivare a Riobamba, dove finalmente potremo alloggiare in un bello e tranquillo alberghetto.
29/11/2007 - Oggi siamo leggeri, niente scarponi, zaini, giacche pesanti, indossiamo solo pantaloni leggeri e maglietta. È già un’ora che il nostro pulmino continua a salire e scendere per Valli Andine Ecuadoregne, poi si ferma su una piazzola che fa da balconata. Sotto di noi il villaggio andino di Gumote; un paese come tanti sperduto in queste vallate che sembrano tutte uguali. Oggi è giorno di mercato, vediamo arrivare gruppi di persone a bordo di automezzi scassati, pieni di animali e cose da portare al mercato da vendere o barattare. Dai sentieri delle valli circostanti scendono gruppi di indios, donne e uomini, che portano sulle spalle le masserizie più disparate: colorate coperte di lana, frutta esotica, alcuni hanno ceste con polli, altri trascinano dei recalcitranti maialini. Tutto questo variegato mondo ha un unico scopo, vendere i propri prodotti. A fine giornata bisogna che ogni persona abbia ottenuto un piccolo guadagno in modo da sostentare la propria famiglia. Entriamo in paese e veniamo coinvolti in un turbinio di colori, dai vestiti esposti sulle bancarelle a quelli indossati dagli indios. Le colorate bancarelle di frutta tropicale che invogliano i passanti all’acquisto, la carne sia cotta che cruda che viene esposta sulle bancarelle o appesa su grandi ganci. Della mucca o del maiale non si butta via niente tutto viene cotto e diventa commestibile. Vediamo degli indios, chi con una mucca, chi con una capra, chi trascina un piccolo maiale, provengono tutti da uno spiazzo adibito al mercato del bestiame. È interessante vedere la vendita o il baratto di animali tra indios e indios e commercianti. Solo dopo estenuanti trattative finite con una stretta di mano avviene la vendita o lo scambio degli animali o prodotti agricoli. Osservi e osservi e, dopo l’iniziale momento di euforia, ti accorgi di quanto sia dura la vita in questi luoghi. Ho la testa tra le mani, chiudo gli occhi e penso, vado a ritroso nel tempo e i vecchi ricordi affiorano nella mia mente. Qualcuno del gruppo non voleva credere quando ho raccontato loro che negli anni cinquanta del secolo scorso, nei nostri paesi di campagna esistevano dei mercati agricoli, dove contadini con la bicicletta andavano a comprare dei piccoli maiali. Questi venivano messi in un sacco per essere portati a casa, dove sarebbero stati alimentati bene per poi essere uccisi, nel mese di gennaio. I loro salami sarebbero serviti per tutto l’anno in attesa che il nuovo maiale venisse ucciso.
30/11/2007 - Questa mattina dopo colazione abbiamo parlato della salita al monte Chimborazo e per ovviare i problemi avvenuti durante la salita al Cotopaxi, controlliamo sia il materiale tecnico che l’abbigliamento più pesante.
Personalmente sono guarito agli occhi. La salita dovrebbe avvenire inizialmente su sentieri rocciosi, privi di cenere lavica, poi su neve e ghiaccio, tutto sembra filare liscio, quando un componente del gruppo annuncia che non si sente bene e rinuncia alla salita. Ci dispiace, ma il suo comportamento viene apprezzato da tutti, quando si tenta una cima in condizioni che potrebbero rivelarsi pericolose, bisogna essere in forma in tutti i sensi sia fisici che mentali. Quando un componente della cordata sta male, devi tenere conto di molti fattori: è notte, il freddo è parecchi gradi sotto zero, poca luce, se non quella dei frontalini e bisogna valutare l’entità del malore. Non si può rimanere fermi a lungo, esiste il rischio di ipotermia, bisogna abbassarsi rapidamente di quota. Valutare ancora se l’alpinista si regge da solo o deve essere accompagnato, in taluni casi la stessa cordata dovrebbe superare problemi anche tecnici per portare a valle il malato. Non è facile rinunciare a un sogno a lungo desiderato, ma la vita propria e quella dei compagni non deve essere pregiudicata, le montagne non scappano, e tutti gli alpinisti prima o poi hanno dovuto rinunciare a una vetta, non per questo hanno smesso di sognare nuove avventure. Questo è il giusto spirito di chi va per le montagne. Il sole sta calando il pulmino arranca, i tornanti si susseguono in una sequenza che sembra infinita. Siamo partiti dal paese di Riobamba e siamo diretti al rifugio Carrel 4.900 metri, punto di partenza per la cima del Chimborazo 6.310 metri. È buio quando partiamo. Inizialmente percorriamo un sentiero di roccia, con un dislivello di circa 100 metri fino al rifugio Whymper quota 5.000 metri. Da questo punto una volta indossati i ramponi e formate le cordate inizia la nuova avventura.
01/12/2007 - È una bellissima notte, la luna con i suoi raggi crea sulla neve strane ombre che variano con il nostro salire in quota. Leggere folate di vento accompagnano i nostri passi lenti e cadenzati. È una progressione costante, procediamo su ghiaccio e neve ben compatta, aggiriamo dei seracchi, il tempo passa inesorabile, le prime luci dell’alba fanno capolino, alziamo gli occhi, ma la cima non si vede è avvolta da una nuvola di foschia. Mancano circa cento metri di dislivello per la cima, ma saranno i più duri di tutta la nottata. Il vento ha cominciato a soffiare muovendo nuvole di cristalli di neve, la nostra cordata è composta da quattro persone, il capocordata, una guida alpina ecuadoregna, non alto di statura, magro, sprizza vitalità e sicurezza, a seguire un robusto trentino di circa novanta kilogrammi, un bergamasco di circa settantacinque kilogrammi, io sono l’ultimo della cordata con i miei circa ottanta kilogrammi. Perché racconto questo? perché più ci avviciniamo alla vetta, al nostro passaggio, la neve non è più compatta e solida, il manto adesso ha una piccola crosta ghiacciata in superficie che non regge il peso della cordata. Io che sono ultimo, per progredire devo affondare le gambe fino al ginocchio. È, una neve farinosa che rende difficile il progredire, ci si aiuta, ma la progressione è lenta. Vediamo la vetta, è lì a portata di mano, ma sembra irraggiungibile. Poi dopo tanta fatica, le punte dei nostri ramponi finalmente riescono a incidere su della neve che si è compattata e su lastre di ghiaccio. All’improvviso il vento si fa sempre più forte. Siamo arrivati sulla cresta della montagna, la vetta è vicina, avanziamo lentamente, un pulviscolo di neve ghiacciata batte incessante sulle nostre tute e sugli occhiali. Si continua a camminare, il tempo sembra dilatarsi, le grosse nuvole che avvolgono la cima ogni tanto si aprono lasciando intravvedere porzioni di paesaggio nelle vallate sottostanti. Poi la guida si ferma, e alza la picozza e le braccia al cielo, abbiamo raggiunto la parte sommitale del monte Chimborazo 6310 metri. Grida di gioia smorzate dalle raffiche di vento, abbracci e pacche sulle spalle e foto, per fortuna la telecamera che avevo nello zaino era ben protetta e ha funzionato a dovere. Siamo rimasti in vetta ad aspettare l’altra cordata, che è arrivata poco tempo dopo di noi.
Il Chimborazo risulta essere la montagna più alta dell’Ecuador e ha anche una peculiare particolarità, risulta essere la montagna più alta al mondo se la si misura partendo dal centro della terra. Questa scalata è’ stata la passerella finale di successo di un gruppo che si è dimostrato grande e coeso.
02/12/2007 - È famoso e citato nelle guide turistiche, l’avventuroso viaggio in treno che dal villaggio di Guamote, attraverso valli andine, arriva fino alla località detta “Nariz del Diablo “e ritorno. Abbiamo la mattinata a disposizione. Nel gruppo vi è voglia di scherzare, non ci sono tante persone che salgono sul treno. Prendiamo possesso di una carrozza, è una ferrovia vecchia di cento e più anni; si dimostra essere vetusta, le carrozze sono in buono stato, ma le traversine di legno, i bulloni che tendono ad allentarsi e i binari mostrano l’usura del tempo. È un percorso che inizialmente, si snoda tra piccoli villaggi, e piccole pianure dove si vedono emergere grandi abitazioni tutte dipinte di bianco, di proprietà dei vecchi proprietari terrieri. Il treno compie ampie curve per seguire l’orografia del territorio. Poi il paesaggio si fa aspro, non ci sono più alberi o cespugli d’erba dove possono pascolare le capre. Ci siamo inoltrati in una vallata rocciosa, il treno fatica a salire e procede lentamente su quei tratti ferroviari che tagliano le pendici della montagna, se ti sporgi dal finestrino vedi il baratro sotto i tuoi occhi per la profondità della valle sottostante. Poi finalmente il treno si ferma. Siamo arrivati alla località detta il “Nariz del Diablo”. Questa conformazione rocciosa, con caratteristiche particolari, si presta a varie interpretazioni. Ogni componente propone la sua versione tra l’ilarità del gruppo, e così si stempera la tensione accumulata sul treno. Ma non è finita, adesso il treno deve scendere per ritornare al punto di partenza. Deve fare delle manovre di scambio su binari fatiscenti e privi delle più elementari segnalazioni di sicurezza. Gli assistenti del macchinista mettono dei mucchietti di erba sulle rotaie per controllare che il treno si fermi al posto prefissato, poi avviene manualmente lo scambio. Una volta controllato che le manovre siano riuscite, tutti in carrozza per la via del ritorno. La costruzione della ferrovia iniziata nel novecento si è dimostrata un’impresa titanica per quei tempi e la sua costruzione provocò decine di vittime e un alto costo economico. Gli ingegneri riuscirono a superare grossi problemi tecnici, ma in definitiva negli anni a seguire causa frane e smottamenti la ferrovia fu quasi abbandonata. Ora è stata recuperata per uso quasi totalmente turistico. Se questa doveva essere un’avventura con qualche rischio, a mio parere, lo è stata. Quella che doveva essere una mattinata di perfetto relax si è tramutata in un’avventura piacevole, ma che, nel suo insieme, presenta anche qualche rischio da non sottovalutare.
Nel pomeriggio, facciamo un tratto di strada su uno sgangherato bus dove, oltre ai passeggeri, viene trasportato di tutto, masserizie, ortaggi, ceste di uova di gallina.
La radio installata sul bus suona musiche locali a tutto volume, sembra di essere ancora al mercato di Guamote. Ci fermiamo in un piccolo spazio ai lati della strada, di nuovo gli zaini in spalla e risaliamo una valle andina. Siamo su quote che oscillano i quattromila metri. Vediamo delle colline tondeggianti con dei quadrati di terreno ben curati. Si notano bene i sentieri di collegamento, da un appezzamento all’altro, ogni tanto troviamo delle case con il tetto in paglia e da quanto si vede il pavimento è di terra. Nel viaggio ci accompagna un giovane Italiano nativo della Valtellina. Lui lavora in una banca equo solidale in aiuto alle popolazioni andine di queste valli e rappresenta le associazioni benefiche e di volontariato della Valtellina, della Lombardia e Italiane. Lo stiamo interrogando sul suo lavoro, quando sbuca un indios che porta a pascolare una mucca, a quella vista lui prende la palla al balzo e ci spiega. “Vedete, in queste valli vi è la povertà assoluta, carenza di mangiare e di soldi per comperarsi il minimo indispensabile. Come banca solidale noi prestiamo i soldi senza interessi, queste persone possono comperarsi la mucca, hanno il latte, alimento vitale per gran parte dell’anno, possono vendere il vitello, una parte del ricavo estingue il debito, una parte del ricavo serve per il bene della famiglia.” Mentre proseguiamo il cammino ci viene incontro una famiglia di indios, mamma papà e due bambine, stanno tornando dal lavoro dei campi. Grandi sorrisi e abbracci tra il nostro volontario e quello che poi ci verrà presentato come L’alcalde, cioè quello che noi chiamiamo il Sindaco del paese o il capo di una comunità. Anche noi sorridiamo a quell’incontro e, come è nostra usanza, allunghiamo le mani per uno scambio di saluti. Le bambine a questo nostro gesto, prima si ritraggono, poi sollecitate dalla mamma, si tirano giù la maglia fino a coprire la mano, solamente dopo stringono la tua. Le mani non sono sporche di terra, sono mani pulite però, questo gesto non dovuto, rappresenta centinaia di anni di sudditanza verso un infimo potere padronale composto erroneamente da persone che si ritenevano culturalmente superiori. Solo da pochi decenni queste comunità si sono liberate dal giogo di padroni arroganti e senza scrupoli, che li sfruttavano e li trattavano peggio delle bestie. Ora giustamente le comunità hanno acquisito una nuova consapevolezza nelle parole, dignità e riscatto sociale. Ci vorrà ancora del tempo, ma molte cose sono già positivamente cambiate, e molte altre cambieranno. Ci stiamo dirigendo verso la scuola “Centro Nueva Vida la Esperanza “, è una scuola che raccoglie i ragazzi e le ragazze delle valli limitrofe. Anche questa una fondamentale iniziativa della banca equo solidale. L’alcalde ci dice che la figlia maggiore ha studiato in quella scuola e ora è all’Università di Cuba per prendere la laurea in medicina e poi sicuramente tornerà per aiutare la sua comunità. È stata una serata toccante dal punto di vista umano. Ci siamo trovati in un capannone adibito a palestra, seduti per terra con delle famiglie indios a parlare di quante difficoltà e sacrifici devono superare per mandare i loro figli a scuola. “La speranza”, questo è il nome della scuola, è la speranza che questi figli abbiano la possibilità di avere materiale e libri per poter studiare. Molti ragazzi, inoltre, devono dormire nella scuola e essere sostentati, perché sono troppo distanti dalle loro case. Solo in queste occasioni, vissute sul posto, si può capire cosa significhi la solidarietà, e renderla fattibile e costruttiva attraverso azioni tese all’insegnamento, per la formazione di nuove generazioni di ragazzi istruiti che possono dare una svolta positiva alla loro vita. Questa è la speranza che abbiamo visto negli occhi dei genitori che avevano i figli che studiavano in quella scuola.
03/12/2002 - I primi raggi del sole fanno capolino e illumina la “scuola la Esperanza “e le vallati sottostanti. In lontananza vediamo innalzarsi il pennacchio di polvere lavica del vulcano Tungurahua che sta eruttando. Ragazzi e ragazze, alla spicciolata arrivano alla scuola, ci salutano con grandi sorrisi, alcuni hanno i libri legati con un elastico, altri tengono i libri dentro a rudimentali zainetti. Nel nostro peregrinare nelle valli Andine abbiamo potuto vedere le varie realtà che la vita quotidiana comporta in questi luoghi. Speriamo che queste nuove generazioni con lo studio possano acquisire la consapevolezza e la capacità di poter migliorare le loro condizioni di vita. Riprendiamo il viaggio, i nostri furgoni sobbalzano di continuo, la strada è dissestata, ai suoi lati la vegetazione è rigogliosa. Stiamo costeggiando le pendici del vulcano Tumgurahua, che continua a eruttare nuvole di cenere lavica, che imbrattano i vetri, costringendo il guidatore a fare funzionare il tergicristallo, niente paura dice, la gente del luogo è abituata a questi eventi che si ripetono a ritmi ciclici ma non sono disastrosi. Sarà anche come dice il guidatore, ma noi non abbiamo lo spirito fatalistico dei campesinos. Vorremmo allontanarci in fretta da quelle pendici, ma non sarà possibile perché il nostro punto di sosta è la località turistica di Banos de Agua santa, porta di ingresso della giungla, prossima meta del nostro viaggio. Un cartello, affisso nella hall del piccolo albergo in cui alloggiamo, ci dice che Banos de Agua santa è una delle più popolari cittadine turistiche dell’Ecuador. Ha una popolazione di circa dodicimila abitanti e che è punto di partenza per visitare parchi naturali, oppure per attività sportive come rafting, kayakhing, escursionismo, ciclismo. Inoltre Banos è famosa per le sorgenti termali e la sua Cattedrale, dove al suo interno vi è la statua della “Virgen de Agua santa”. Antiche Storie raccontano di molte guarigioni attribuite alla Madonna. Ancora oggi la popolazione ritiene miracolose queste acque curative. Anche io sono andato alle terme, l’immergersi nella vasca termale, i fumi sulfurei sprigionati e il tepore dell’acqua calda, hanno fatto sì che tutta la tensione, le fatiche, il freddo accumulati nei giorni precedenti in brevissimo tempo scomparissero. Strano a dirsi mi sentivo più leggero una serenità interiore difficile da spiegare. Il tempo, per me, si era come fermato, era come non esistesse. Sono passati alcuni anni da quel pomeriggio magico, vorrei ancora rivivere quella ridda di emozioni, ma non è possibile, è un sentimento, un sentire, legato a quello specifico e irripetibile momento.
04/12/2002 - Il vulcano Tumburahua questa notte ha fatto sentire la sua voce, alla mattina, quando saliamo sui nostri automezzi, una leggera coltre di polvere lavica copre la città di Banos. Siamo diretti nella giungla dell’Alto Napo, le strade sono sempre più dissestate. Ci sono tratti secchi e polverosi e tratti completamente bagnati dove, per l’acqua che scende dalle montagne, le strade diventano fangose e si deve procedere con molta precauzione. Poi trovi la strada sbarrata e ti dicono che il ponte è crollato, gli autisti sorridono per loro è una cosa normale, si tratta solamente di fare alcune deviazioni per poi riprendere la strada che ci condurrà all’ l’Alto Napo. Adesso il caldo si fa sentire e rigagnoli di sudore bagnano la schiena, non abbiamo pantaloni corti e l’abbigliamento è pur sempre da montagna. Per fortuna è programmata una sosta per mangiare e sgranchire le gambe, visitando parte di un lungo Canyon. Chilometri e chilometri di strada, poi entriamo in quello che sembra un grande tunnel dove alti alberi e una folta vegetazione fanno da contorno. Il sole sta tramontando quando finalmente arriviamo nella località della foresta vergine amazzonica chiamata “Alto Napo”. Delle piccole canoe ricavate da tronchi di legno solcano il fiume Napo, dobbiamo attraversarlo se vogliamo raggiungere il nostro albergo che è in bella vista al di là del fiume. L’acqua scorre tranquilla anche se limacciosa, mi sento a disagio al pensiero di dover attraversare il Rio Napo dentro a quelle barche artigianali. Qualcuno del gruppo scherza, personalmente non sono sereno, sono un pessimo nuotatore e una mia eventuale caduta in acqua potrebbe risultare fatale. Poi arriva una barca a motore con uno spazio sufficiente a contenerci, non ci sono salvagenti da indossare, però è un mezzo cha da un senso di maggior sicurezza. Due magnifici pappagalli coloratissimi ci danno il benvenuto, quando arriviamo alla reception. È un lodge che bene si integra nel contesto dell’ambiente amazzonico. Visto che vi è la possibilità, decido di alloggiare su una delle singole stanzette poste su palafitte al limitare della boscaglia tra fiori coloratissimi che fanno da corollario a piante di banane e piante di mango.
05/12/2002 - Frutta e frutta, un’esplosione di frutta colorata si è parata ai nostri occhi quando ci siamo presentati a colazione, abbiamo tutti gradito e apprezzato. La giornata si presenta calda e afosa, indosso dei pesanti stivali di gomma, inoltre la guida ci ha consigliato di indossiamo dei pantaloni pesanti e camicie a manica lunga, cappello e dentro agli zaini leggeri, bottiglie d’acqua e della frutta. La guida del luogo, un indios ben preparato, ci ha fatto toccare con mano vari aspetti della giungla Amazzonica: come muoversi, quali precauzioni prendere quando si entra in quel contesto particolare, della pericolosità dei serpenti velenosi e altri animali apparentemente non nocivi, che se maneggiati senza le dovute precauzioni possono portare a gravi conseguenze. Vediamo alberi centenari, che per abbracciarli occorrono quattro o cinque persone per determinarne la circonferenza, fiori meravigliosi, piante da frutto, tuberi e quant’altro. La guida ci spiega come la foresta abbia permesso il sostentamento e la vita alle popolazioni Amazzoniche. Si cammina in un ambiente con un alto tasso di umidità a cui non siamo abituati, e i nostri indumenti sono completamente bagnati fradici. Strano a dirsi ma camminare nella giungla in queste condizioni risulta essere più faticoso che salire un difficile sentiero di montagna.
Nella giungla troviamo indios che lavorano pezzetti di terra e che si spostano a cavallo di piccoli asini. Poi sfociamo in una grande strada aperta da poco tempo, si vedono degli alberi di accatastati ai cigli. Il così detto “progresso“ avanza inesorabilmente nella Regione del Rio Napo, depauperando la giungla delle gigantesche piante secolari, aprendo nuove miniere, con la conseguenza di inquinamento delle acque dei fiumi. Non pensando alle conseguenze che dovranno subire i nuovi insediamenti urbani a seguito di tali modi di agire.
05/12/2002 – Una barca a motore ci aspetta sulla riva del Fiume Napo, ha il fondo piatto, due indios a piedi scalzi e con addosso dei calzoni corti ci guardano sorridenti. Nei loro occhi mi sembra di vedere un misto di curiosità nei nostri confronti, visto anche l’abbigliamento che indossiamo, non proprio consono per andare a visitare un parco naturale alla ricerca di animali esotici. Navigare sul Rio Napo è molto pericoloso, bisogna essere esperti conoscitori per evitare i pericoli e le insidie che si possono trovare lungo il percorso. Bisogna evitare piccoli e grossi tronchi, evitare di incastrarsi su delle secche di sabbia, superare con molta precauzione delle barriere di massi affioranti e passare attraverso esigui spazi. Dalla barca ogni tanto vediamo sulla riva del fiume delle fatiscenti tende atte a riparare dal sole e delle persone che stanno setacciando la sabbia sulla riva del fiume. Ci spiegano che sono dei “garimpeiro”, cercatori d’oro che illegalmente cercano di trovare fortuna in questi luoghi desolati. Infine, camminiamo su un tratto di foresta vergine in cerca di animali. A parte delle scimmie che saltavano da un albero all’altro, e qualche pappagallo nessun altro avvistamento degno di nota, l’ennesima dimostrazione di come l’uomo con il suo insensato bracconaggio stia distruggendo questo meraviglioso habitat. Ora la barca solca tranquillamente le acque del Rio Napo, il sole sta calando e sparendo dietro gli alti alberi della foresta, gli ultimi raggi creano dei riflessi dorati tra le onde. Con questa ultima immagine fissata nella mia memoria si chiude quella che io considero una bella avventura che ci ha dato l’opportunità di scalare delle montagne, ma anche di conoscere vari aspetti umani e culturali del popolo ecuadoriano.